Mentre chiudevo questa newsletter è arrivata la notizia della morte improvvisa di Ali Rashid. L’ho conosciuto come giovane funzionario dell’Olp. Mai un parola fuori posto. La voce sempre calma. Ha rappresentato perfettamente quella generazione di palestinesi della diaspora che, mentre rivendicava i propri diritti, cercava il dialogo con israeliani ed ebrei pacifisti. Il destino disegna strade contorte, ma forse non è strano che uomini così vengano a mancare proprio ora.
Benvenuti e benvenute a questo nuova appuntamento. Cominciamo con recuperare il podcast di Rights Now andato in onda su Radio Popolare. Qualche flash su come si è concluso il Festival dei Diritti Umani (molto bene!) e con un fantastico podcast inventato dalla Scuola Italiana di Montevideo. Buon ascolto!
Se devo morire che sia una storia
Ho bisogno del vostro aiuto. Vorrei capire se solo nella mia bolla personale qualcosa sta cambiando sull’atteggiamento verso i massacri di Gaza, o se è qualcosa di più ampio. Spero ovviamente nella seconda. Ci penso da quando sono andato al festival “fratello” vicino/lontano di Udine che ha operato una scelta coraggiosa: per la prima volta in 21 anni, non ha premiatio l’autore di un libro ma ha assegnato il Premio Terzani alla memoria delle giornaliste e dei giornalisti palestinesi uccisi semplicemente perché facevano il loro mestiere. Come ha detto argutamente l’antropologo Nicola Gasbarro, una delle anime di vicino/lontano, “questa volta non premiamo i vincitori ma i vinti”.
Per la cronaca: non si sa neppure di preciso quanti siano, sicuramente più di 200, ovvero più di ogni qualsiasi altra guerra del ‘900.
Nelle scorse settimane fa gli organizzatori mi avevano dato in anteprima la notizia, confessandomi un po’ di preoccupazione per le possibili proteste. Che invece non ci sono state. Anzi, ho visto raramente un teatro tutto in piedi che tributa un lunghissimo applauso a Wael Al-Dahdouh, il capo della redazione di Al Jazeera a Gaza a cui l’esercito israeliano gli ha ucciso moglie, figli e nipoti, e a Sawfat Al-Khalout, free lance e collaboratore di alcuni media italiani.
Spoiler: su Rights Now, in onda ogni lunedì alle 7 su Radio Popolare sentirete un’intervista a Wael Al_Dahdouh
Poco giorni prima l’Ordine dei Giornalisti ha approvato per acclamazione un ordine del giorno di solidarietà con le colleghe e i colleghi palestinesi. In questo testo si legge tra l’altro che occorre dare “un sostegno anche pratico, nelle forme che saranno possibili” e chiede “alle istituzioni italiane e alla politica tutta di farsi promotrici, negli organi preposti, di ogni tipo di pressione, condizionamento e sollecitazione, affinché vengano rispettatati il diritto internazionale e la libertà di stampa nei territori occupati da Israele”. Perché ne parlo? Perché nel triennio precedente l’Ordine dei Giornalisti non era arrivato a prendere una posizione così netta.
Terzo indizio. La campagna “ultimo giorno di Gaza” ha travolto anche gli stessi organizzatori. Una volta definito un concetto - se noi cittadini, se noi Europa non facciamo niente muore Gaza - ogni aderente, individuale o di gruppo, si è mosso spontaneamente. Ci sono state maratone di lettura di poesie palestinesi, sit-in, messaggi postati sui social, grandi scritte sulla sabbia e poi riprese con i droni…
È come se si fosse rotto l’argine dell’indifferenza, dell’accomodamento, della strumentalizzazione della par condicio. Un ignobile muro innalzato anche qui. A Milano, la città dove vivo, amici ebrei e palestinesi discutono pubblicamente - come hanno sempre fatto prima del 7 ottobre - si organizzano incontri, visioni di film e documentari.
Non è questione di essere ottimisti o pessimisti; semplicemente sempre più persone stanno prendendo il coraggio di dire ciò che è evidente da mesi: a Gaza l’esercito israeliano sta compiendo orrendi massacri, sta compiendo reati contro l’umanità, sta realizzando una delle più vaste campagne di pulizia etnica.
Non solo. Probabilmente sempre più persone stanno finalmente capendo che se si permette a Netanyahu di farlo, qualunque altro governante potrà fare altrettanto in un altro angolo del pianeta, giustificandosi con le azioni assassine del Primo Ministro Israeliano.
C’è un però. Grosso. Quando lo capiranno anche i leader politici occidentali?
Se devo morire è una poesia di Reefat Alareer, poeta e docente palestinese, ucciso in un raid israeliano nel dicembre 2023. È una delle poesie che compaiono nel libro “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza” - Fazi editore - per ogni copia venduta 5 euro vanno a Emergency.
Se io dovessi morire
tu devi vivere
per raccontare
la mia storia
per vendere tutte le mie cose
comprare un po’ di stoffa
e qualche filo,
per farne un aquilone
(magari bianco con una lunga coda)
in modo che un bambino,
da qualche parte a Gaza
fissando negli occhi il cielo
nell’attesa che suo padre
morto all’improvviso, senza dire addio
a nessuno
né al suo corpo
né a se stesso
veda l’aquilone, il mio
aquilone che hai fatto tu,
volare là in alto
e pensi per un attimo
che ci sia un angelo lì
a riportare amore
Se dovessi morire
che porti allora una speranza
che la mia fine sia una storia!
Con questa newsletter torna anche una bella collaborazione iniziata con Arte la piattaforma europea di reportage e documentari di alta qualità giornalistica. Quando è possibile, grazie al loro catalogo, allarghiamo il nostro sguardo oltre le notizie mainstream che troviamo sui giornali italiani. Questa volta, ad esempio, andiamo in Laos. Ma la guerra, anche se di molti anni fa, è ancora protagonista.
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