Il 18 luglio 2001 ho lasciato il concerto di Manu Chao un po’ prima della fine. Mi sono incamminato sul vialone che costeggia il mare di Genova per andare nella casa che un’amica mi aveva prestato.
Quello è stato il preciso momento in cui capii che il G8 di Genova sarebbe finito peggio di quanto temessi.
Vidi in azione enormi gru che impilavano uno sopra l’altro i container vuoti delle navi per formare una barriera invalicabile.
La gabbia era chiusa. Non ci sarebbe stata via di scampo.
La mattina dopo, in redazione, lo dissi a Piero Scaramucci. Da cronista che aveva vissuto gli anni della strategia della tensione si limitò ad annuire preoccupato. Il resto lo conoscete. E dopo Carlo Giuliani, dopo la Diaz, dopo l’assalto al corteo delle Tute Bianche, dopo i Black Bloc lasciati liberi di agire, dopo Bolzaneto, Piero Scaramucci trovò la definizione più accurata:
è stata la risposta militare contro la forza del movimento.
Parto dall’esito drammatico del G8 di Genova perché altrimenti non si capisce la ragione di tanta violenza.
Una volta fisicamente spazzato via quel movimento anche le sue idee avrebbero perso centralità. E così è successo.
Ma perché quelle idee erano così pericolose?
Per rispondere bisogna lasciare da parte le sensazioni e provare a immergersi nei documenti.
È una pagina del libro “Prima persone”, scritto da Vittorio Agnoletto e pubblicato da Laterza nel 2003. Agnoletto è stato il portavoce del Genoa Social Forum.
Vogliamo analizzare le affermazioni del documento del GSF e capire se quel movimento aveva visto giusto?
Una premessa: i numeri sono quasi sempre delle stime, ma senza tema di smentita si può dire che:
già nel 2022 il World Inequality Database contava che il 10% della popolazione più ricca possiede il 76% della ricchezza mondiale. Se volete saperne di più qui trovate tutti numeri
la fame nel mondo: secondo l’ultimo Global Hunger Index (qui tradotto in italiano da Cesvi) più di 700 milioni non hanno cibo a sufficienza e naturalmente le guerre stanno peggiorando le condizioni, vedi Gaza.
la povertà: apparentemente i numeri sono in miglioramento. Secondo le stime della Banca Mondiale nel 2024 settecento milioni di persone vivono con meno di 2,15 dollari. Ma, ricorda Terre des Hommes, significa che quel pugno di spiccioli “non basta nemmeno a garantire a una persona il cibo necessario per una dieta sana e l’acqua potabile”.
Cito ancora qualche dato dallo stesso libro di Agnoletto.
“I paesi ad alta industrializzazione hanno adottato la delocalizzazione produttiva come mezzo per spostare parte delle attività di produzione (in genere quelle a minore valore aggiunto) soprattutto in paesi che si sono recentemente aperti al mercato o che comunque offrono condizioni favorevoli in termini di minori costi di produzione o più facili condizioni di operatività […] tra i costi di produzione quello del lavoro è sicuramente tra i fattori più discriminanti …”
Basta vedere l’etichetta dell’ultimo capo di abbigliamento o dell’ultimo paio di scarpe che avete acquistato per confermarlo.
O ancora, a pagina 101, si può leggere: “negli ultimi 25 anni (quindi dagli anni ‘80 n.d.r.) si sono susseguite 158 crisi finanziarie dovute a pressioni sul cambio e 54 crisi bancarie: c’è tutto l’interesse, infatti, a mantenere incostante il sistema finanziario globale, che in questo modo offre un maggiore margine alle speculazioni”.
Cinque anni dopo l’uscita di questo libro esplose la grande crisi dei mutui subprime. Molti film, a posteriori, hanno raccontato i meccanismi perversi che ne erano alla base. Per esempio Margin call
Infine la guerra. Cosa diceva il movimento di Genova, ma ancor prima di Porto Alegre e, ancora più indietro nel tempo, di Seattle?
Può piacere o non piacere il linguaggio ma sarebbe disonesto negare che in queste poche righe vediamo esattamente ciò che stiamo vivendo oggi. Allora i documenti del movimento alter-mondialista parlavano di “stato di guerra permanente”, avendo intuito che il modello economico vincente spingeva in quella direzione. Già nel 2002 gli Stati Uniti raggiungevano, con i 379 miliardi di dollari di spese militari, il 40% del budget mondiale.
Solo chi è in malafede può sostenere che quelli bellici siano investimenti per la sicurezza. Sono spese che inducono insicurezza.
Secondo l’Istituto Sipri di Stoccolma, sicuramente il più attendibile su questi argomenti, ai tempi del G8 di Genova erano in corso una decina di conflitti, oggi sono più di 50. Con effetti devastanti sulla popolazione civile e in particolare su quella più fragile. Per non parlare dei costi sociali che l’aumento del budget bellico comporta.
Nel 2001 un movimento internazionale aveva individuato nell’accoppiata liberismo economico + globalizzazione un processo che avrebbe generato instabilità, saccheggiato le risorse comuni, creato oligopoli, indebolito le tutele dei più fragili.
Aveva visto giusto. Come Cassandra.
Perfino Mattia Feltri, sulla prima pagina de La Stampa del 9 aprile scorso, lo ammette, anche se mescola miele e fiele.
Quel movimento aveva visto giusto a indicare il G8 - un organismo senza alcuna legittimità istituzionale - come la cabina di regia di questa linea.
Organismo che allora inglobava anche la Russia di Vladimir Putin. Adesso nemico numero dell’Occidente, allora alleato. Eppure Putin aveva già ordinato i massacri in Cecenia.
A conferma che i diritti umani non sono mai stati presi in considerazione nelle scelte strategiche del club G8. E che invece erano al centro delle proposte del movimento che venne distrutto militarmente a Genova.
Goffredo Fofi

Goffredo Fofi da vivo è stato tenuto ai margini dalla cultura mainstream. Esercitava un pensiero critico troppo ruvido per i salotti. Quando è morto, pochi giorni fa, tanti l’hanno ricordato: sembravano tutti suoi grandi amici. Probabilmente ora Goffredo Fofi starà ridacchiando di questi comportamenti.
Ho chiesto a Oreste Pivetta, suo amico per davvero, di ricordarlo. E Oreste mi ha mandato due pagine fitte fitte di affetto sincero e straordinari aneddoti. Sarà un piacere anche per voi immergersi in questo racconto della vita di un intellettuale spiazzante.
P.S. L’ultimo numero di questa newsletter l’avevo dedicato all’assoluta necessità di un pensiero critico anche quando non riesce ad essere maggioranza. Goffredo Fofi incarnava perfettamente questa necessità.
E ora buona lettura con il ricordo scritto da Oreste Pivetta.
La morte di Goffredo Fofi ci ha sorpreso e forse non avrebbe dovuto sorprenderci. Goffredo era giunto a quell'età che, purtroppo, ogni giorno ogni notte, spalanca le porte all'ultimo passo. La morte di Goffredo ci ha ovviamente addolorato. Forse addolorato ha un po' cattivo senso di circostanza.
Molti sentivano per lui ammirazione e soprattutto un affetto profondo che si esprimeva anche in un senso di protezione.
Forse per quel bastone, che lo accompagnava da anni e che lo mostrava più fragile di quanto fosse. A Milano, a casa, era un bicchiere di vino (beveva il dolcetto), si stendeva sul divano e dormiva. Mi raccontava di non aver mai avuto problemi con il sonno: in treno, in una sala d'attesa, in un posto qualunque. Poi era la cena, vegetariana, e un conversare infinito, un'antologia di storie e di personaggi, anche di consigli e di stroncature. Non citerò le sue ultime “vittime”, non citerò anche se ne avrei voglia quel tale, famoso ormai e assai ricco, che arrivato al successo non si ricordò quasi di lui, che pure l'aveva cresciuto.
La riconoscenza non è di questo mondo, come non lo è la solidarietà.
A Roma, nella sua ultima casa tra Piazza Vittorio e via Merulana, Goffredo ospitava e nutriva. Cucinava senza parsimonia, verdure fresche e mozzarella dal mercato che frequentava, poi ciascuno faceva la sua parte. In primo luogo si lavavano i piatti. In questi casi lasciava molto dire agli altri, gente di talento. Ma si capiva che l'attenzione era per lui. Una volta mi capitò di salire al piano con un signore che teneva un pacchetto sotto il braccio. Erano le scarpe per Goffredo, che le provò subito. Non ne fu molto soddisfatto. Il signore era un regista molto bravo, che avevo apprezzato per alcuni suoi lavori.
A rifornirlo di camicie, per lo più camiciole, quelle a mezze maniche, era stata a lungo, Grazia Cherchi, amica dai tempi dei Quaderni piacentini. Sono passati trent'anni dalla morte di Grazia. Ricordo il saluto a Grazia in un piazzaletto accanto all'ospedale milanese dove era morta.
Giovanni Giudici, mentre più in là un martello pneumatico perseguitava un muretto di cemento, fece presente a tutti noi che non avremmo più potuto “sentire Grazia”, dopo che per tanto tempo ci eravamo abituati a concludere ogni discussione, a dirimere ogni contrasto, a superare ogni incertezza, con una frase: “Sentiamo Grazia”.
E' capitato anche con Goffredo, qualche volta reticente se l'argomento non gli andava, altre volte una domanda muoveva un racconto che si moltiplicava in mille pagine, in mille ricordi, in mille giudizi.
Forse per questo la morte di Goffredo ci ha sorpreso: contavamo in un aiuto senza fine.
La sua opera resterà, per noi almeno. Ma altra fortuna era ascoltare la sua voce, cogliere le sue espressioni, i suoi gesti, apprezzare in tante immagini una storia italiana e non solo italiana, tra cultura e politica, tra libri e film, tra Salvemini e Totò, tra Capitini e Fellini, tra Dickens e Elsa Morante, ben consapevole di che qualità fossero la società italiana e il mondo prima di lui e durante lui.
Sapeva leggere, guardare, ascoltare sempre considerando il “contesto”, brutta parola che sta per storia, economia (nel senso della distribuzione della ricchezza), umanità (nel senso di collettività di donne e uomini), società divisa tra poveri e ricchi in un eterno (magari da noi oggi sopito) conflitto di classe.
Una volta capitammo a parlare di Grand Hotel e di Bolero, dei fotoromanzi che ebbero una straordinaria diffusione e che molti, professori e professorini, consideravano in modo sprezzante i “giornali delle servette”. Goffredo mi riportò alla realtà di quegli anni e al valore di quei fogli, prime letture e primi strumenti di acculturazione di un popolo semianalfabeta.
Del resto, lui, ragazzo, si avvicinò al cinema grazie ai libretti che sua madre comprava e che riassumevano le trame dei film più celebri. Anche quelli del suo Totò, che in un libro celebre, scritto con Franca Faldini, sottrasse al giudizio spocchioso della “sacra famiglia dei critici cinematografici”, esaltando le virtù dell'attore e dell'interprete acuto, paradossale, spregiudicato di una società, di un mondo, di un paese come il nostro.
Ricco di sogni e di contraddizioni, rappresentati dalle mille espressioni verbali e mimiche del grande comico. Ne avrebbe scoperto o riscoperto un altro, Alberto Sordi, dal buffo al tragico di un personaggio simbolo delle miserie nostrane.
Per questo poco apprezzando l'accademia nutriva una gran stima per un accademico milanese, professore di letteratura alla Statale, Vittorio Spinazzola, che aveva scardinato le classiche graduatorie tra generi e sottogeneri, indagato le retrovie della letteratura, ritrovato scrittori e scrittrici (una tra tante, Carolina Invernizio), giudicati ai margini, recuperato gialli e fumetti e fantascienza, grazie a una lettura critica lontana da schemi e classificazioni, soprattutto “contestualizzata” (ci risiamo con il “contesto”).
Goffredo non aveva lauree, ma solo un diploma magistrale: l'insegnante delle medie, pur riconoscendo quanto fosse bravo, sconsigliava il liceo al figlio di un operaio. Il padre aggiustava biciclette, poi si trasferì a Parigi, lavorando nei cantieri edili, e a Parigi, dopo Palermo, arrivò anche Goffredo. Seguì qualche conferenza alla Sorbona, frequentò soprattutto le sale cinematografiche e le riviste di cinema.
Nella storia di Fofi ci sono moltissime riviste. A Parigi scrisse su Positif. In Italia si unì ai Quaderni piacentini, creati da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, sempre carissima premurosa amica. Ne divenne il cuore: le sue polemiche, le sue stroncature, anche le sue generose promozioni.
Le “sue” riviste sono state tante: Ombre rosse, Linea d'ombra, La terra vista dalla luna, Dove sta Zazà, Lo straniero, Gli asini. Dimentico qualcosa. Le voleva perché le percepiva come strumento di battaglia politica e culturale, di critica militante e come occasione di incontro, di aggregazione, di solidarietà, di conoscenza.
La ricchezza di quelle esperienze si può riconoscere anche nei lunghissimi elenchi dei collaboratori. Ma Goffredo ne cercava sempre di nuovi. Cercava in tutta la penisola e fuori.
Soprattutto giovani, che potessero presentare esperienze originali, pensieri originali e speranze, storie piccole, storie ai margini. Di riviste ne immaginò e ne propose fino all'ultimo. Con una novità: più di una volta mi disse che si sarebbe ritirato a Lamezia Terme, in una comunità, e che lì avrebbe messo in piedi una radio. Chissà se ce l'avrebbe fatta. Ci avrebbe provato. La rassegnazione non era nel suo bagaglio.
Il problema erano i soldi, che non arrivano mai neppure da chi con facilità qualche generosità avrebbe potuto mostrare. Goffredo ha scritto molto per le sue riviste e moltissimo per i giornali, l'Unità, l'Avvenire, l'inserto culturale del Sole 24 ore, per alcune riviste (ricordo King e, se non ricordo male, una rubrica dal titolo tutto “fofiano”: “Il meglio del peggio”). Gli piaceva la radio. Raramente capitò il televisione (adesso si è rivisto un documentario che è un po' il sunto della sua vita). Non gli piaceva la televisione. Una volta, per un salone del libro di Torino, mi contattò la redazione di Corrado Augias: lo volevano ospite in una trasmissione culturale, perché era appena uscito un suo libro: “Benché giovani”. Non so perché chiedessero a me di intercedere. Si negò. Insistetti. Lo pregai. Alla fine si rassegnò. Lo vidi arrivare dal fondo di un corridoio: si capiva che non era contento e lo mostrò, un po' spazientito, nel corso dell'intervista.
Televisione e giornali, anche i grandi giornali che non gli avevano mai concesso una sola riga, in morte gli hanno dedicato copiosamente servizi e pagine: la solita corsa ad accaparrarsi qualche benevolenza. In vita lo temevano, perché era uno spirito libero, che aveva fatto della libertà il metro del suo lavoro di critico del cinema, della letteratura, della nostra società, “dalla parte del torto”, per svelare ipocrisie, falsità, pregiudizi, quel “senso comune” confezionato dalla politica, dai media, dalla pubblicità, sentimenti e credenze di maggioranze addomesticate.
Mi è capitato di scrivere/ confezionare per Laterza un libro intervista a Goffredo Fofi, “La vocazione minoritaria”. Goffredo si raccontò.
Era certo che alle minoranze, libere da compromessi, toccasse la responsabilità della osservazione e della contestazione del presente e soprattutto, libera dai compromessi, dai cedimenti, dalle volgarità del potere, la possibilità di guardare avanti, di progettare il futuro, di ritrovare il valore del conflitto contro un potere corrotto e indifferente alle sofferenze dei più. Esistono ancora quelle “minoranze virtuose” cui si appellava Goffredo? Credo che siano sempre più “minoranze”, ai margini.
Contro il mondo dei convinti, degli assuefatti, degli annichiliti, tutti prigionieri del consumismo (non a caso sul suo tavolo si poteva trovare, tra i tanti libri, “La cultura del narcisismo” di Christopher Lasch). Lo stato delle cose potrebbe scoraggiare chiunque. Non avrebbe scoraggiato lui, perché pensava ci fosse sempre spazio per opporsi. Non dimenticava Camus e il suo “mi rivolto, dunque sono”.
Andai una volta nella sua casa di Milano, a Porta Venezia, insieme con Grazia Cherchi in occasione dell'uscita di un suo libro, “Pasqua di maggio”. Entrai in una cucina dove da un lato, lungo un filo, erano appesi lenzuola e asciugamani. Sul gas cuoceva qualcosa. Mi sembrò d'assistere a una scena di un film del neorealismo anni cinquanta. “Pasqua di maggio” ha un sottotitolo: “Un diario pessimista”. Norberto Bobbio ne diede una bella interpretazione : “Ma Fofi è davvero un pessimista? Non direi. O almeno è un pessimista scontento di esserlo, che si sforza di non esserlo”.