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"Se davanti a un'ingiustizia sei neutrale, hai scelto di stare dalla parte dell’oppressore." Desmond Tutu
Bentrovat* a questa mia nuova newsletter. Sono Danilo De Biasio e dirigo la Fondazione Diritti Umani. Oggi vorrei parlarvi di egoismo - dei brand e anche di ciascuno di noi - come specchio dei tempi. Ma per questo numero di Rights Now cambia l’ordine degli addendi e si comincia con Autista Moravo 100 + 10.
Nessuno ha indovinato chi erano i protagonisti di questo fantastico documento storico. Era difficile, lo ammetto.
Per risolvere il mistero mi faccio aiutare da Paolo Rumiz che ci ha scritto un libro, Come cavalli che dormono in piedi (Feltrinelli). Erano le lontanissime voci - registrate nel 1916! - dei soldati del 97° Reggimento dell’Impero Austro-Ungarico. Erano tutti italofoni, venivano dalla Venezia-Giulia e dal Trentino, dalle attuali Slovenia e Croazia. Quando scoppia la Prima Guerra Mondiale i generali li spediscono lontano a combattere, in Galizia, che oggi chiamiamo Ucraina. Combatteranno, uccideranno, verranno uccisi, verranno fatti prigionieri. Ma proprio la loro anomalia - soldati che parlano italiano ma combattono per Cecco Beppe - li renderà i perfetti colpevoli, considerati traditori da entrambe le parti. Lasciamo che sia Paolo Rumiz a spiegarlo:
… sul reggimento 97, per esempio, il Sieben und neunzich, chiamato dai triestini sibuinàizi, il più famoso e denigrato dei reparti di fanteria del Nord Adriatico; italiani, sloveni e croati dipinti come una marmaglia di pessimi soldati, ma ancor più spesso come una banda di assenteisti, vigliacchi e disertori, il ricettacolo di tutte le infamie militari. […] Ci ho messo cinquant’anni per sapere la verità e cioè che il reparto del disonore fu vittima di maldicenza. Certo, non era formato da prussiani addestrati all’obbedienza cieca, ma aveva ottenuto fior di medaglie ed era meglio di tanti altri reparti. A decidere la sua reputazione erano stati gli alti comandi di lingua tedesca o ungherese, che avevano trovato in quella banda mistilingue lo scaricabarile perfetto dei loro fallimenti. Le armate asburgiche arretravano? Colpa dei triestini, o dei trentini. E così gli uni e gli altri vennero pesantemente denigrati, con gratuite brutalità e umiliazioni di ogni tipo. Figurarsi quando l’Italia entrò in guerra e la nostra gente divenne il paradigma del tradimento. Ma il peggio venne dopo, quando i vincitori, nel ‘18, invece di restituire l’onore a quei ragazzi, adottarono la menzogna del nemico e confermarono la degradazione. Non si doveva sapere che migliaia di italiani avevano combattuto per l’Austria con onore. E così accadde che a guerra finita, al ritorno dal fronte o dalla prigionia in Russia, i nostri furono non solo diffidati dai carabinieri a raccontare ciò che avevano vissuto, ma addirittura spediti in campi di rieducazione nel Centro-Sud. Dopo essere stati troppo italiani per i tedeschi, erano diventati troppo tedeschi per gli italiani.
Grazie a Paolo Rumiz e anche a Piero Cavallari della Discoteca di Stato che mi ha segnalato questa registrazione trovata nell’Archivio dell’Accademia delle Scienze di Vienna.
E ora le ultime 5 puntate di Autista Moravo 100 +10. (in realtà abbiamo delle bonus track ma dovrete aspettare un’altra settimana per scoprire di cosa si tratta…)
Sulla Grande Guerra vi segnaliamo questo prezioso libro curato da Gianluca Costantini e Elettra Stamboulis: Officina del macello. 1917 la decimazione della Brigata Catanzaro.
La ricerca storica e i disegni di Gianluca Costantini (anche lui presente qui su Substack) permettono di tornare su una delle tante fucilazioni arbitrarie volute dai generali, quello della Brigata Catanzaro nel 1917. Dopo aver passato mesi in prima linea viene promesso un po’ di riposo, ma appena arrivati nelle retrovie i generali ordinano di tornare subito sul Carso. Il loro rifiuto verrà ripagato con il sangue, con la decimazione e la fucilazione. Come troverete nella puntata 22 di Autista Moravo scoprirete che in tutti gli eserciti della Prima Guerra Mondiale è stata usata questa pratica brutale. Indovinate quale nazione NON ha riabilitato le vittime di questa barbarie?
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Come nelle miniere si è esaurita la vena. In questi giorni, da vari angoli del mondo, mi è arrivato questo messaggio: le imprese non vogliono più legarsi a nessuna causa politica, i brand non intervengono su temi socialmente rilevanti o politicamente divisivi (concetto strumentalizzato come non mai). Chi sta nell'arcipelago del Terzo Settore l’aveva già capito: il piatto delle donazioni piange da tempo. Ma attenzione: questo problema non riguarda solo le associazioni come la nostra, è un segnale di egoismo che potrebbe riguardare l’intera società. Perché un conto è se la Nike non ingaggia più testimonial come Colin Kaepernick, un conto è se il ragazzo che indossa le Nike non vuole proprio saperne di Black Lives Matter. Nel primo caso è (solo) un problema di budget, nel secondo caso è un maledetto problema etico e sociale.
Tre letture mi hanno suggerito questo tema. A partire da una mail di Valerio Melandri, guru del fundraising, che scrive:
“il piccolo ruscello che sembrava finalmente aver trasformato l'idea stessa di azienda come qualcosa che rifletteva i bisogni emergenti sociali della società è stato riassorbito dal grande alveo del fiume gigantesco, potente e prorompente (e per certi aspetti intollerante) del politicamente corretto, del non divisivo, del non dire, del non prendere una posizione, di non lanciarsi in affermazioni che potrebbero non piacere a tutti i nostri clienti”.
Semplice no? Il caso più recente è la cancellazione della campagna Adidas con Bella Hadid. Alla modella non è stato perdonato il suo attivismo per la causa palestinese. O per tornare all’esempio precedente, l’argomento Black Lives Matter si è rinsecchito perché nella politica statunitense sta prevalendo l'idea che la vita dei neri riguardi solo i neri. Quindi per non perdere una fetta di mercato le aziende non scelgono più come testimonial un giocatore afroamericano di football che si inginocchia in nome dell’antirazzismo.
Cambierà qualcosa con la candidatura di Kamala Harris? Troppo presto per dirlo.
Il secondo messaggio mi è arrivato da Francesco Oggiano (che vi consiglio di leggere su Substack) che partiva dalla constatazione che dopo le stragi del 7 ottobre e la successiva guerra di Israele, i brand ritenevano furbo non schierarsi e perfino i creativi non creavano più niente per non rischiare di perdere committenti. E poi Francesco Oggiano aggiungeva che
“secondo alcuni osservatori, «lo shopping valoriale è un lusso meno accessibile durante i periodi di inflazione». Quando i prezzi aumentano i consumatori iniziano a preoccuparsi più della convenienza economica di un prodotto, piuttosto che del valore politico del brand che lo confeziona”.
Ecco il risvolto economico, la paura del proprio impoverimento. Che non riguarda solo i vip: quanti di noi vorrebbero comprare la passata di pomodoro eticamente sostenibile, prodotta da chi non schiavizza i braccianti, ma poi prendono il barattolo in offerta speciale?
Ok, ammettiamo che il “ceto medio” sia diventato più egoista per paura di perdere il proprio status, ma le imprese? Non avrebbero nessuna ragione per stringere i cordoni della borsa. Secondo Oxfam nel biennio 22/23 148 grandi aziende hanno realizzato profitti per 1.800 miliardi di dollari, molto più degli anni precedenti, distribuendo dividendi da nababbi ai propri azionisti. La Banca Mondiale, non certo immune da responsabilità, ammette che “il 2023 è l'anno della disuguaglianza” e che dopo il COVID “la battaglia è stata resa più dura dalle minacce aggravate del cambiamento climatico, della fragilità, dei conflitti e della violenza o dell'insicurezza alimentare”.
Uniamo i puntini: le imprese donano sempre meno, non vogliono più appoggiare cause politiche o sociali. Lo fanno perché temono le instabilità - guerra, crisi climatica - e perché i loro azionisti hanno sempre più fame di profitti. Ma come suggeriva il fundraiser Valerio Melandri le imprese fanno così anche perché interpretano il sentire comune? Nel 1999 Naomi Klein con il suo “No logo” aveva descritto bene il trend del periodo: le aziende non avevano più
“convenienza a investire le proprie limitate risorse in fabbriche che avranno bisogno di manutenzione, in macchinari che diventeranno obsoleti, in dipendenti che inevitabilmente invecchieranno e moriranno”.
Il logo - semplificando un po’ il ragionamento di Naomi Klein - diventava il valore più prezioso da salvaguardare. Quel modello economico si è evoluto nel capitalismo della sorveglianza, definizione azzeccata di Shoshana Zuboff e contemporaneamente la forbice delle disuguaglianze si è allargata.
E qui torniamo all’inizio del nostro lungo ragionamento: le imprese private non appoggiano cause sociali o politiche, non perché hanno meno soldi, ma perché gli azionisti chiedono più utili e perché credono di interpretare un mondo sempre più egoista, spaventato dal rischio di impoverimento, incapace di prevedere cosa succederà con due guerre in corso e una crisi climatica inarrestabile.
Per concludere questo ragionamento cito il terzo messaggio che mi ha spedito in questi giorni Nicoletta Dentico, responsabile del programma salute della Society for International Development, nonché consigliera d’amministrazione della Fondazione Diritti Umani. Mi ha riportato le frasi che Achim Steiner, responsabile del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, ha pronunciato ad un evento del think tank ODI: “dobbiamo contrastare la sfiducia verso l’Agenda dello Sviluppo Sostenibile”, ha detto il funzionario ONU, concludendo che “bisogna tornare nelle piazze”. Se lo dice lui…