La rotta balcanica dei diritti
Ciao, oggi abbiamo tre cose da segnalarvi: la prima è che se vi siete persi l’ultima puntata di Rights Now trovate il podcast qui; la seconda è che confermiamo la sana abitudine di offrirvi un’anteprima della prossima puntata e, terza novità, affidiamo questo numero della newsletter alla penna e alla macchina fotografica di Silvia Morosi, amica e giornalista del Corriere della Sera, che ha intrapreso un viaggio nei vicini Balcani. Buona lettura, buon ascolto, buona visione.
L’anticipazione
Un po’ pomposamente l’hanno definito il Vertice del Futuro. Il 22 e il 23 settembre si riunisce il vertice dell’Onu con lo scopo di vincere le sfide del presente e salvaguardare, appunto, il futuro dell’umanità. Più realisticamente i documenti preparatori ammettono che guerre, povertà, fame, crisi climatica e migrazioni aumentano; e che la governance internazionale non funziona più. I governi stanno preparando un documento che a detta del professor Marco Mascia Presidente del Centro di Ateneo per i Diritti Umani "A. Papisca" è acqua fresca. Per rilanciare l’Onu ci vuole ben altro.
Marco Mascia è tra i protagonisti della Mobilitazione straordinaria per la pace del 21 settembre, che si svolgerà sui luoghi della Perugia-Assisi. Ho preso il suo intervento dalla riunione online che l’associazione Articolo21 tiene online ogni settimana. Potete sentirne una parte nella prossima puntata di Rights Now su Radio Popolare lunedì 16 settembre.
Il podcast
Qui trovate la puntata di Rights Now di lunedì scorso 9 settembre. Gaza e l’anniversario dell’uccisione di Mahsa Jina Amini erano gli argomenti scelti.
Sulla rotta dei diritti in Bosnia
Rights Now ospita il diario di viaggio della giornalista Silvia Morosi. Guardando le sue foto e i suoi testi sembra che Silvia si sia soffermata sulle fratture della storia recente dei Balcani: cos’è rimasto della convivenza travolta dal nazionalismo armato, come può la democrazia liberale arcuarsi fino a diventare autoritarismo, scoprire che c’è sempre qualcuno più ultimo fra gli ultimi, in questo caso i migranti.
UTOPIA BRUTALISTA DI CEMENTO
Il viaggio parte da Trieste, aristocratica città di frontiera, simbolo diviso del Novecento – dall’italianizzazione forzata al discorso del 1938 di Mussolini, fino alla contesa del suo territorio durante la Guerra Fredda – che oggi si riunisce in piazza dell’Unità sotto la fontana dei Quattro Continenti. Oltre il confine, avvolto nei boschi della Croazia centrale e deliberatamente lasciato all’incuria, lo spomenik di Petrova Gora è dedicato alla rivolta dei popoli delle regioni di Kordun e Banija. Costruito nel 1981, fu usato da Tito per omaggiare quei contadini di etnia serba che, temendo le deportazioni, ripiegarono nelle montagne e combatterono contro gli ustascia. Nel 1990 ospitò una manifestazione dell’allora Unione dei combattenti antifascisti, intrisa dell’iconografia della Grande Serbia: chi partecipò non ricorda bandiere con il volto del Maresciallo. Se in Serbia i luoghi di commemorazione di jugoslava memoria sono più al sicuro purché in linea con la narrazione nazionalista, qui la storia sembra voler essere dimenticata.
«GAME»: IN GIOCO C’È LA SOPRAVVIVENZA
Sotto i camion parcheggiati decine di cani randagi si riparano dal sole. Li osservo dal finestrino del pulmino, prima di scendere e mostrare i documenti per passare il confine. Se in alcuni momenti ha smesso di fare notizia, la rotta balcanica non ha mai smesso di scontrarsi contro il muro fortificato dell’Europa. Dal 2016 il viaggio è diventato sempre più pericoloso e costoso, non solo in termini di denaro. Bihac, la prima città bosniaca dove ci fermiamo, è un passaggio quasi obbligato per migliaia di persone che tentano il game (che di gioco ha poco) dal Medio Oriente, tra controlli e pushback. Nelle acque della Drina decine di migranti sono morti inseguendo il sogno di una vita migliore. Al ritorno, il confine ha un’aria diversa: alcuni manifesti invitano ad arruolarsi nell’esercito e tante persone si mettono in coda, per tornare a casa a piedi, cariche di birre e bibite acquistate tra le bancarelle bosniache al di là della rete, dove (ancora) costano di meno.
ERIGERE MURI, ABBATTERE PONTI
Nel passaggio dalla Bosnia all’Erzegovina, il verde rigoglioso e fitto si trasforma, di colpo, in un panorama caratterizzato da cespugli bassi e campi puntellati di balle di fieno e cimiteri. Raggiungiamo Mostar: tra gli eventi che animano la città spiccano i tuffi dal Ponte Vecchio distrutto e ricostruito, che Paolo Rumiz ha definito «un atto di fede». Camminando per le strade, è difficile non fermarsi a osservare le date sulle lapidi del cimitero vicino alla moschea Karadjoz Bey e quell’anno di morte – il 1994 - che lega tante vite interrotte. Impossibile non chiudere gli occhi per sentire le voci del bazar, quelle dei (troppi) turisti e quella del muezzin che richiama alla preghiera. Regna il silenzio anche nel cortile tra i palazzi della città dove nel 1994 persero la vita tre giornalisti della Rai, arrivati per realizzare uno speciale sui bambini vittime della guerra in ex-Jugoslavia. Una granata di mortaio, violando il cessate il fuoco, li colpì davanti a un rifugio. A ricordarli due lapidi: su quella in serbo-croato è cancellato il riferimento alla «guerra fratricida». La fatica di una riconciliazione che tarda ad arrivare.
ARMONIA TRA LE DIFFERENZE
Sulla strada Mostar-Stolac, in Krajšina, si trova la tomba di Moshe Danon, che divenne il rabbino capo della Bosnia ed Erzegovina nel 1815. A quel tempo, il governatore Ruždi-paša accusò la comunità ebraica dell’omicidio del derviscio Ahmed, un convertito all’Islam, e ordinò l’arresto di Danon e di dieci dei suoi più stretti collaboratori, chiedendo un riscatto che la comunità ebraica non era in grado di pagare. Dopo aver minacciato l’esecuzione degli arrestati, i musulmani di Sarajevo – sì, avete capito bene, i musulmani - si ribellarono e liberarono i prigionieri. Durante la prigionia, Danon giurò che avrebbe fatto un pellegrinaggio in Palestina e che, se fosse morto durante il viaggio, sarebbe stato sepolto in quel luogo. La morte lo trovò nel 1830 vicino a Stolac, dove la sua tomba è oggi meta di pellegrinaggio per gli ebrei sefarditi della Bosnia-Erzegovina e non solo.
LA CONTESA DELL’ORO BLU
Trebinje, al confine tra Bosnia e Montenegro, è un gioiello nascosto che porta con sé la storia ottomana e quella austroungarica. È il mercato, luogo di incontro e stupore, scambio di merci e idee. È la fontana al centro della piazza dove lavare la frutta prima di sedersi a un tavolino a mangiarla ordinando un caffè. Ed è l’acqua che la circonda: accompagnati dal corso dell’Una, nella parte ovest del Paese, qui siamo sorpresi dal colore dei fondali della Trebišnjica che fanno da specchio al cielo. Venire in questa terra significa anche essere circondati dall’oro blu, risorsa su cui oggi si giocano alcune delle più importanti sfide: negli oltre 200 corsi d’acqua della Bosnia- Erzegovina sono in progetto o in costruzione oltre trecento impianti idroelettrici. L’altro elemento, meno conosciuto, su cui si è aperta la contesa è il litio: tante associazioni locali si stanno battendo perché questa terra non diventi una futura colonia mineraria dell’Europa.
Grazie Silvia Morosi! Nel prossimo numero di Rights Now la seconda parte del viaggio di parole e immagini nei Balcani.