Ciao, che periodo complicato per i diritti umani! Proprio quando l’ONU si riuniva per discutere del suo (nostro) futuro, il governo israeliano ha fatto sapere che nel presente comandano solo le sue bombe, e ne ha fatte cadere a migliaia sul Libano. E così ci avviciniamo nel peggiore dei modi all’anniversario del 7 ottobre. Una piccola buona notizia è la mobilitazione straordinaria per un diritto negato a molti: la cittadinanza.
Fratelli e sorelle d’Italia?
No, non quelli di Meloni and Co. Parliamo dei compagni di classe di nostro figlio, dell’idraulico che ci ha riparato il lavandino, della neurochirurga che ci ha visitato. Alcuni ce l’hanno fatta, altri non riescono ad avere la cittadinanza italiana. Da pochi giorni la raccolta di firme per arrivare ad un referendum che dimezzi i tempi per accedere a questo diritto ha raggiunto quota 500mila. Ma la campagna continua fino al 30 settembre e noi, insieme a Pegah Moshir Pour vi invitiamo a partecipare!
Dopo il successo nella raccolta delle firme per il referendum sull’autonomia regionale avevo proposto di non sottovalutare questo segnale di attivismo (ma neppure enfatizzarlo, perché poi bisogna andare a votare…). Mi colpiscono due dati:
stare immobili, proni alle decisioni populiste del Governo Meloni, è più comodo; se fai anche il semplice gesto di mettere il tuo nome e cognome in una richiesta di uguaglianza di diritti stai facendo comunque un gesto politico che rivendichi con il tuo nome. Il secondo dato sono proprio i valori che si vogliono difendere con queste iniziative. Sono tutte richieste di parità di diritti e solidarietà.
Sono atti di opposizione al Governo in carica? Sì, ma la scintilla è arrivata dal basso, non dai leader dei partiti. Non mi illudo: aver raggiunto e superato 500mila firme non significa aver invertito una tendenza mondiale alle politiche esclusiviste delle destre al potere: ma il sismografo sociale segnala piccole scosse.
Rights Now: il podcast
Prima di passare alla seconda e ultima puntata del reportage di Silvia Morosi sui vicini Balcani il classico appuntamento con il podcast di Rights Now. Nell’ultima puntata andata in onda su Radio Popolare abbiamo avuto Nicoletta Dentico da New York sul vertice Onu e con Leone De Vita dell’Associazione Abele ci siamo spostati in Costa d’Avorio. Buon ascolto!
Sulla rotta dei diritti in Bosnia
A cura di Silvia Morosi.
SARAJEVO: QUI INIZIA E FINISCE IL NOVECENTO
L’innesco della Prima guerra mondiale avvenne qui, in una domenica di fine giugno del 1914, con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria, e di sua moglie Sofia. La fine del secolo breve porta, invece, la data del 5 aprile del 1992 quando Sarajevo viene messa sotto assedio per 1.425 giorni. Salendo in funivia sul monte Trebevic - dove nel 1984 si svolse la XIV edizione dei Giochi Olimpici Invernali, la prima in un Paese socialista – si osservano le postazioni dove per quattro anni piovvero le granate e i colpi dei cecchini che colpirono anche la Biblioteca Nazionale. Entrando a Markale, il mercato coperto di Sarajevo, una rosa di sangue incastonata nel pavimento ricorda la granata che la mattina del 5 febbraio 1994 uccise 68 persone, ferendone 142. Una guerra programmata per dividere il Paese. Un assedio che si aggiunge agli orrori delle guerre balcaniche. Dove eravamo quando la capitale di un Paese riconosciuto e indipendente fu messa sotto assedio, il più lungo nella storia bellica moderna? Dove siamo oggi quando cercano di convincerci dell’impossibilità di una convivenza multietnica pacifica e dell’inevitabilità di un conflitto armato?
UN CAMPO DI GIOCO E DI BATTAGLIA
Per le strade di Sarajevo non è raro imbattersi in murale dedicati alla memoria di Vedran Puljić, 24enne tifoso del FK Sarajevo ucciso nel 2009 in una trasferta a Široki Brijeg, località dell’Erzegovina a maggioranza croata. Gli anni trascorrono ma la “polveriera balcanica” è sempre pronta a esplodere. A uccidere il giovane cattolico fu un colpo di pistola sparato da un giovane tifoso del Široki (i sostenitori sono chiamati Škripari, come i gruppi ustascia che continuarono a combattere contro i comunisti dopo la fine della Seconda guerra mondiale). Alcuni giornali di Sarajevo paragonarono quell’episodio all’inizio dell’assedio nel 1992, scrivendo «mancano solo le granate».
SREBRENICA: GLI ASSASSINI E GLI INDIFFERENTI
Quando arriviamo, Travnik – conosciuta come patria dei Patria dei cevapčići - è silenziosa e deserta, come la descrive lo scrittore Ivo Andrić nelle Cronache. Numerosi minareti punteggiano le colline sulla strada, ma il vero gioiello è nascosto nel centro: a pochi passi dalla casa natale del Nobel per la Letteratura sorge la Moschea Sulejmanija, conosciuta come «moschea colorata». Su un muro ritroviamo dipinto, come in altre città lungo il cammino, il «Fiore di Srebrenica», il simbolo del massacro perpetrato nel 1995, a pochi passi dai nostri confini. Tra l’11 e il 25 luglio 1995 oltre 8mila bosniaci musulmani vennero deportati, uccisi (spesso dopo aver subìto torture) e sepolti in fosse comuni, e migliaia di donne furono stuprate dalle forze serbe. Tutto sotto gli occhi dei Caschi Blu dell’Onu chiamati a proteggere i civili.
JAICE: LA JUGOSLAVIA CHE MOLTI VOGLIONO CANCELLARE
Tra il 21 e il 29 novembre 1943, Jajce fu sede della seconda sessione dell’Avnoj, il consiglio antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia, dove vennero gettate le basi del nuovo Stato Federale con il Maresciallo Tito come primo ministro. Jajce («ovetto» in italiano) sono le rovine della chiesa di Santa Maria trasformata in moschea, le cascate, le catacombe, la casa/base per i vertici partigiani che qui avviarono la resistenza, il monumento che celebra il culto di Mitra. Ma è soprattutto l’incontro con la ong Cod, che promuove la riconciliazione lì dove la guerra ha lasciato profonde ferite e offre opportunità di incontro a quei giovani che a scuola si trovano a studiare, ancora divisi, quelle che vengono chiamate materie “nazionali”. Lingua, geografia, letteratura e storia sono ancora considerate terreno di scontro, con conseguenze negative in termini di integrazione e rimarginazione delle fratture etniche create dal conflitto.
LA VERGOGNA DIMENTICATA
Appena superata la frontiera croata, ecco Jasenovac. Creato dagli ustascia di Ante Pavelic, viene definito anche l’«Auschwitz dei Balcani». Secondo i piani del Terzo Reich, il campo doveva essere destinato alla detenzione e all’eliminazione di ebrei, oppositori politici e zingari. Gli ustascia, però, considerarono il luogo “adatto” per internare e distruggere la popolazione serba. I prigionieri venivano uccisi con coltelli, mazze e spranghe, per risparmiare sui proiettili. L’architetto serbo Bogdan Bogdanovic ha realizzato sopra una tomba di massa il «Fiore di pietra», un simbolo di perdono in un luogo che lui stesso definì «profanato dal crimine». A Bogdanovic si deve anche l’aver coniato il termine «urbicidio», che in modo drammaticamente efficace racconta la distruzione sistematica del patrimonio culturale, architettonico, storico e dei valori di una civiltà, come troppo spesso abbiamo visto in questo viaggio nei Balcani.
Grazie a Silvia Morosi, amica e giornalista del Corriere della Sera, che ha voluto condividere con Rights Now questo diario di parole e immagini sui vicini Balcani e le loro fratture storiche. A noi l’esperimento è piaciuto molto: con il suo linguaggio semplice abbiamo (ri)scoperto rancori e ingiustizie diventate pretesto per nuove vendette. Volete che proseguiamo con altri reportage di parole e immagini? Scrivetemi: direzione@fondazionedirittiumani.org